Pensioni anticipate e inflazione: perché sarà un autunno difficile
Pensioni anticipate e inflazione si affiancano al caro bollette e alle difficoltà delle famiglie ad arrivare alla fine del mese. È questo il mix potenzialmente esplosivo che attende il nuovo governo post elezioni. La data del prossimo 25 settembre 2022 non rappresenta solo uno spartiacque elettorale. Il prossimo autunno sarà infatti difficile, perché i temi che attualmente stanno occupando la campagna elettorale avranno riscontri concreti nell’immediato.
D’altra parte, sono anni ormai che si parla d’interventi sulle pensioni. E la necessità di agire con urgenza per salvaguardare elementi chiave di flessibilità nel sistema previdenziale, come l’Ape sociale e l’opzione donna, deriva proprio dalla mancanza di misure strutturali. Sullo sfondo c’è anche la conclusione della quota 102. Senza un intervento del legislatore, a partire dal prossimo 1° gennaio 2023 la legge Fornero tornerà a rappresentare la principale modalità di accesso alla pensione.
Pensioni anticipate e inflazione: tra il ripristino della legge Fornero e le prossime perequazioni
Senza una proroga delle opzioni di flessibilità in scadenza le pensioni anticipate richiederanno almeno 42 anni e 10 mesi di versamenti (un anno in meno per le donne). Mentre per le uscite ordinarie sarà necessario attendere i 67 anni di età con 20 anni di contribuzione. Certamente un nodo da sciogliere sulla previdenza, ma non l’unico.
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Il prossimo mese di ottobre i pensionati con assegni medio – bassi (che non superano la soglia di 2692 euro lordi) si vedranno applicare una mini rivalutazione straordinaria del 2%. Il meccanismo è stato previsto all’interno del decreto Aiuti bis e verrà applicato ai restanti ratei previdenziali del 2022. Si tratta di un sistema pensato dal governo uscente per sostenere i pensionati nella lotta al caro vita.
Gli extra costi per l’adeguamento degli assegni: il collegamento tra pensioni anticipate e inflazione
Purtroppo il contesto macro economico rende complicato recuperare risorse per la flessibilità previdenziale. L’adeguamento vero e proprio arriverà da gennaio 2023, quando i trattamenti saranno aggiornati all’inflazione. Un intervento che richiederà stanziamenti ingenti, visto e considerato quanto sta avvenendo negli ultimi sei mesi dell’anno in corso.
La Ragioneria dello Stato ha già indicato che il costo della spesa previdenziale salirà dello 0,7% rispetto al Pil nel 2023. Cifre che devono essere considerate a parità di condizioni rispetto alla situazione attuale e che pertanto non tengono conto di eventuali interventi sulla flessibilità in uscita dal lavoro. Tradotto in numeri, la spesa necessaria per garantire gli adeguamenti all’inflazione dal prossimo gennaio andrà dai 6 agli 8 miliardi di euro.
L’impegno della politica per evitare lo scalone della legge Fornero
Resta poi da verificare in che modo la politica interverrà per evitare il nuovo scalone della legge Fornero, dettato dalla conclusione della quota 102. A gennaio 2023 l’esperimento delle quote avrà fine e tutti i partiti sono concordi sulla necessità di un cambio di rotta. Ma la distanza tra le richieste dei sindacati e le ipotesi elettorali resta elevata.
Da un lato i rappresentanti dei lavoratori chiedono un meccanismo di flessibilità generale a partire dai 36-64 anni di età e con 20 anni di versamenti. Insieme all’estensione della quota 41 per tutti i lavoratori. Dall’altro lato si procede in ordine sparso, con chi rilancia misure per i precoci e chi invece vorrebbe rinnovare e potenziare l’Ape sociale e l’opzione donna.
La proposta di flessibilità previdenziale in arrivo dall’Inps
Nel mezzo c’è spazio anche per una proposta in arrivo dal presidente Inps Pasquale Tridico, che suggerisce di avviare un meccanismo di doppia uscita a partire dai 63 anni. In questa prima fase, la pensione anticipata sarebbe costituita solo dalla parte puramente contributiva dell’assegno. Mentre a 67 anni verrebbe erogata la pensione piena, quindi comprensiva anche della parte retributiva.
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Il meccanismo sembra quindi consistere in una sorta di accompagnamento alla pensione, posto che la sola parte contributiva per la maggior parte dei richiedenti non potrebbe comunque risultare sufficiente a garantire un tenore di vita adeguato senza fare ricorso ai propri risparmi e senza ulteriori redditi.
La riforma del settore previdenziale e il tema delle pensioni minime
Tra i nodi da sciogliere all’interno dell’attuale sistema previdenziale c’è poi quello delle pensioni minime. Sul punto si parla ormai da anni dell’istituzione di una pensione di garanzia, destinata ai lavoratori iscritti al sistema contributivo puro. Questi pensionati non potranno infatti beneficiare dell’adeguamento alla minima previsto con il sistema retributivo misto e rischiano di vivere condizioni di povertà in età avanzata.
Ma tra le diverse proposte dei partiti c’è anche chi suggerisce d’innalzare le pensioni di base attuali a 1000 euro al mese. Un intervento che rischia di costare almeno 10 miliardi di euro, per toccare i 30 miliardi nei casi in cui la platea risulti più ampia. È chiaro che impegni economici tanto elevati rischiano di mettere in dubbi la possibilità di realizzare ulteriori interventi relativi alla flessibilità previdenziale.
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